La Terza Rinascita

Un piccolo regalo per te… l’incipit del mio romanzo, in prevendita adesso su Bokkabook

ANTEFATTO

(Provincia toscana, fine anni 80)

Quella cittadina di provincia della Toscana, alla fine degli anni 80, era probabilmente uno dei posti migliori del mondo in cui vivere: le dimensioni la rendevano perfettamente a misura d’uomo; l’economia in fase espansiva da ormai più di un decennio, che in quei luoghi era inizialmente stata trainata soprattutto dalla lavorazione dei metalli preziosi e dall’industria tessile, aveva generato un benessere diffuso, dimostrato in maniera particolare dalla fioritura di una borghesia sempre più ramificata e agiata. Avvocati, commercialisti, ma anche costruttori edili, tutte presenze che facevano intuire di trovarsi in una città ricca.

Il centro storico, circondato da mura medievali che ne ricordavano il passato, si articolava attraverso strade strette, incavate fra palazzi antichi come fossero canyon solcati dalla presenza secolare di un fiume, tutte convergenti verso un punto unico, più in alto rispetto al resto della città, che ne sanciva il cuore antico, costituito, come d’uso, dalla diarchia di poteri che nei secoli avevano coesistito in quei luoghi: il Duomo, simbolo del potere sacro, e il palazzo comunale, a rappresentanza di quello civile. Peraltro, quella diarchia di potere era probabilmente l’unica reale testimonianza ancora presente e viva dei secoli passati, tramandata in quei luoghi dalla presenza di associazioni, in passato talvolta segrete, a quel tempo al massimo riservate, come può esserlo qualcosa in una cittadina abitata da un centinaio di migliaia di abitanti, in cui tutti conoscono tutti e, specialmente in certi ambienti, quelli legati alle élite imprenditoriali e professionali, tutti sanno tutto di tutti: il bello e, contemporaneamente, il brutto della vita di provincia, avvitata in un’immagine talvolta falsata della realtà, come in uno specchio deformate dentro a una casa dei misteri di un Luna Park.

L’inverno ormai inoltrato aveva portato con sé tutti i soliti corollari della stagione, compreso un vento freddo che a tratti si incanalava nelle vie strette del centro e sferzava le persone che, avvolte nei loro cappotti, percorrevano quelle strade illuminate per le festività natalizie in avvicinamento, in cerca di regali o di ritorno dagli ultimi giorni di lavoro prima delle feste.

In una di queste vie, di fronte a un cancello metallico chiuso, un gruppo di persone aspettava l’uscita da scuola dei figli, in un rituale che si ripeteva uguale a se stesso, giorno dopo giorno: le classi che escono in una sorta di valanga informe di bambini urlanti e i genitori che cercano di riconoscere la propria prole, come all’aeroporto quando si aspetta il bagaglio sul nastro trasportatore, tentando di distinguerlo da altri simili grazie a quei piccoli dettagli  che rendono le cose che ci appartengono uniche.

Un uomo sulla trentina, coperto da un elegante cappotto grigio fumo, alto e magro, capelli rossi, di quel tono per cui da ragazzo nove volte su dieci ti soprannominano “pel di carota” o roba simile, si era posizionato leggermente in disparte rispetto alla massa degli altri genitori, defilato su un lato in attesa che il grosso della confusione svanisse. Di solito era sua moglie a prendere la bambina da scuola, ma qualche linea di febbre l’aveva costretta a casa, affidando a lui quel compito che, comunque, quando doveva, svolgeva sempre con piacere: anche se negli ultimi anni le cose al lavoro avevano iniziato ad ingranare bene, con grande soddisfazione personale, anche per i piccoli lussi che iniziava a poter concedere a sé e alla famiglia, non riusciva a non sentirsi in colpa per il tempo che inevitabilmente sottraeva ai suoi cari.  D’altronde, il prevedibile rovescio della medaglia era rappresentato dal sempre minor tempo che riusciva dedicare alla moglie e, cosa che gli pesava anche maggiormente, alla figlia che adorava.

Del resto, se poteva ancora liquidare come normali i sensi di colpa per le assenze, i fatti degli ultimi giorni avevano aggiunto un forte carico di inquietudine che lo stava costringendo ad una seria riconsiderazione complessiva della propria vita.  Non era però quello il momento di pensarci. Adesso c’era solo da aspettare l’uscita da scuola della piccola che rappresentata la gioia più grande della sua vita, godendosi a pieno il momento in cui, riconoscendolo, le si sarebbero illuminati gli occhi ed aperto il sorriso, assaporando ogni istante di quel momento.

Ancora il cancello era chiuso. L’uomo si frugò in tasca, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne accese una, osservando gli altri genitori che si accalcavano vicino all’uscita della scuola, intenti nella solita attività di socializzazione a cui lui non aspirava minimamente partecipare. Lo sguardo, distrattamente assorto sull’agglomerato di mamme e papà rumoreggianti a pochi metri da lui, fu attirato dalla figura di due uomini scesi da una macchina che si era appena fermata con due ruote sul marciapiede poche decine di metri più in là. I due avevano attirato istintivamente la sua attenzione, senza che sapesse bene perché, come se una sorta di campanello di allarme interno avesse voluto avvisarlo che c’era qualcosa di stonato che meritava attenzione. Non era tanto la macchina di grossa cilindrata abbandonata nella posizione inconsueta per quella zona della città e nemmeno che quei due evidentemente non avevano né l’aspetto di genitori giunti lì per prendere i figli, né peraltro parevano minimamente interessati a quel contesto; c’era dell’altro che, in quegli istanti, l’uomo stava cercando di mettere a fuoco nella propria mente, qualcosa che intuiva lo riguardasse personalmente. Passò velocemente nella propria testa in rassegna le facce di persone conosciute, cercando di abbinarle ad un contesto. All’improvviso si ricordò.

Quei due accompagnavano un investitore di cui sapeva poco in occasione di un incontro con uno dei suoi clienti più importanti. Prese piede immediatamente dentro di sé lo stesso senso di inquietudine, tanto istintivo quanto apparentemente immotivato, che quei soggetti gli avevano procurato la prima volta che li aveva visti. Non che fossero classificabili chiaramente come tipi loschi, ma qualcosa di indefinito che aveva a che fare con il loro comportamento, con la postura e più in generale con l’atteggiamento, lo avevano allarmato in quella circostanza, esattamente come in quel momento.

Li seguì con lo sguardo e si rese conto che quei due stavano puntando direttamente su di lui, segno che la loro presenza lo avrebbe interessato di lì a poco in maniera concreta. Li fissò mentre coprivano gli ultimi metri che li separavano dal punto in cui stava sostando: uno era alto, apparentemente atletico, l’altro più basso e tarchiato; notò che anche loro lo stavano guardando, riuscendo peraltro a intimorirlo notevolmente.

I due gli si affiancarono e fu l’uomo più basso a parlare con un tono formalmente cordiale ma freddo e un’inflessione che ne tradiva l’origine meridionale «Buongiorno dottore»;

L’uomo li osservò ancora un istante, perplesso «buongiornoci siamo già incontrati se non sbaglio»

«non sbaglia».

La risposta, lapidaria nel tono più che nelle parole, tolse ogni dubbio all’uomo circa il fatto che da quell’incontro sarebbero derivati problemi.

L’uomo cercò di mostrarsi tranquillo, ma si rese conto che le parole gli uscivano in maniera innaturale, molto più forzata di quanto avrebbe voluto «posso esservi utile?»;

«direi di sì, dovrebbe venire con noi».

In quel momento i cancelli della scuola si aprirono; l’uomo obiettò, tentando di apparire deciso e irremovibile «mi dispiace, adesso non è possibile, devo prendere mia figlia a scuola come, potete intuire»;

«lo sappiamo, non si preoccupi, sua figlia verrà con noi. Non ci vorrà molto e subito dopo la riaccompagneremo alla sua macchina…l’ha parcheggiata al solito parcheggio coperto vicino alla piazza, giusto?».

L’uomo deglutì. Sentiva il respiro aumentare di frequenza, segno della agitazione che lo stava pervadendo, ma tentò comunque un’obiezione decisa «non se ne parla: che io venga con voi assieme a mia figlia è fuori discussione. Non so bene chi siete, ma potete andarvene per quel che mi riguarda»;

Il soggetto più alto tirò giù la cerniera che chiudeva un giubbotto marrone scamosciato, corto alla vita. Il giubbotto si aprì, lasciando intravedere un oggetto scuro infilato nel fianco dei pantaloni. L’uomo non era assolutamente esperto di armi, non aveva neppure fatto il servizio militare, svicolato grazie ai rinvii per motivi di studio, ma di certo quella era una pistola e tanto bastava. L’altro, quello basso e tarchiato, riprese a parlare «Senta, lei viene con noi, su questo non ci sono dubbi. Sta a lei decidere se la cosa sarà rapida e senza problemi oppure…»;

A quell’”oppure” lasciato sospeso, l’uomo raggelò; lo sguardo d’istinto andò verso la pistola sul fianco dell’individuo di fronte a lui e, subito dopo, verso la massa dei genitori poco distanti. L’interlocutore, accortosi dell’associazione mentale che quegli sguardi sottendevano, riprese con tono tranquillo ma con un’evidente punta di sarcasmo «non si preoccupi, nessuno di loro si accorgerebbe di nulla e comunque, mi creda, le persone sono più portate a farsi i fatti propri di quanto lei possa pensare», quindi, come a voler dare maggior concretezza a quello che stava dicendo aggiunse «glie lo posso assicurare per lunga esperienza personale».

L’uomo rimase in silenzio: era evidente che l’ultima cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata seguire quei due; men che meno assieme alla figlia. Ma quale poteva essere la via d’uscita per quella situazione? Improvvisamente maledisse la circostanza che fino a pochi minuti prima aveva trovato tanto piacevole, di dover essere venuto lui al posto della moglie e di aver così finito per coinvolgere la sua piccola in quella storia di cui iniziava a intuire i contorni.

La voce accanto a lui, come se avesse capito i suoi ragionamenti, riprese in maniera più accomodante «Non si preoccupi, non succederà nulla né a lei, né tantomeno a sua figlia. Se lei adesso non fa storie e viene con noi, fra un ora sarà tranquillamente a casa da sua moglie». L’uomo, mentalmente sfinito dalla situazione, fece un cenno assertivo con la testa.

In quel momento i bambini iniziarono a uscire dal cancello, preannunciati dal classico rumore di voci festanti e sovrapposte; l’uomo si avvicinò indirizzando lo sguardo, preoccupato e ansioso allo stesso tempo, cercando di scrutare in mezzo a quel fiume in uscita e riconoscere la sua piccina. Trascorsero solamente pochi secondi prima di vederla, raggiante, emergere dagli altri mentre lo stava cercando con lo sguardo. Come ogni volta, appena gli occhi di bimba riconoscevano la figura del padre, si illuminavano, tramutandosi in un raggio di sole in grado di abbagliare il genitore estasiato. Quella volta però, nemmeno quella visione riuscì a rasserenare l’animo dell’uomo, semmai ancora più in pena mentre la figlia gli andava incontro. Lei lo salutò come faceva ogni volta, mettendosi in punta di piedi e abbracciandolo, arrivando però solamente a stringere a sé le gambe del padre; quindi si ritrasse, incuriosita da quei due uomini sconosciuti che stavano con il suo papà. L’uomo la guardò: i capelli rossi, gli occhi celesti, la pelle chiara marcata da qualche lentiggine sulle guance e da una piccola voglia più scura nella parte sinistra del collo che loro gli avevano sempre detto dipendere da una notte in cui la mamma, mentre la aspettava, aveva avuto un’improvvisa voglia di cioccolata. Si sforzò di apparire tranquillo: nonostante lo stato di agitazione che lo pervadeva, voleva evitare in tutti i modi di far capire alla figlia che c’era qualcosa di anomalo in quella situazione: «amore questi due signori sono amici del babbo. Andremo un attimo con loro e poi andremo a casa, va bene?». Lei acconsentì di buon grado: un giro con il babbo e dei suoi amici era una cosa piacevole.

L’uomo tarchiato interruppe il quadretto familiare in modo calmo ma secco «andiamo». I due si assicurarono che padre e figlia entrassero nell’auto sedendosi nei sedili posteriori, quindi presero posto davanti e l’auto parti.

Il viaggio fu effettivamente breve e, soprattutto, decisamente silenzioso: i due davanti non dissero nulla, né fra di loro, né verso di lui che, in ogni caso, non avrebbe minimamente voluto dover scambiare alcun discorso con quei due e si stava esclusivamente preoccupando di distrarre la figlia raccontandole cosa avrebbero fatto assieme nel pomeriggio.

L’auto continuò a svoltare per le strade del centro, fino a entrare in un piazzale interno, posizionato al centro di alcuni condomini fatti di mattoni rossi. Superò il primo condominio e si infilò in una rampa che scendeva nei garage del secondo. L’ambiente si fece improvvisamente buio e la piccola chiese al padre dove fossero: «non preoccuparti amore, il, babbo deve solo parlare cinque minuti di lavoro con una persona, poi andiamo via subito».

L’auto si fermò, i due davanti scesero e l’uomo più alto apri lo sportello dal lato del padre, facendogli cenno di seguirli. Lui, prima di allontanarsi, si rivolse alla figlia: «Amore, il babbo scende un secondo, tu aspettami qui e fai la brava». La piccola pareva sempre più perplessa così l’uomo si slacciò l’orologio, glielo porse e aggiunse «Facciamo così amore, tu conta quante volte la lancetta lunga fa tutto il giro e prometto che prima che arrivi a 10, io sarò tornato». La cosa parve piacerle, anche perché voleva sempre giocare con gli oggetti del padre, ma di rado lui glielo concedeva. Annuì soddisfatta e il padre richiuse lo sportello dell’auto.

Il terzetto si allontanò di alcuni metri, risultando a causa della penombra appena visibili per la piccola che li aveva seguiti con lo sguardo, prima di concentrarsi sull’orologio che teneva saldamente fra le mani. Giunti davanti a una porta metallica da cu si accedeva alla rampa di scale interne al condominio, si fermarono. I due si fecero più vicini e, come era sempre accaduto fino a quel momento, fu il tipo basso e tarchiato a parlare «Abbiamo un messaggio per te: stai facendo troppe domande. La devi smettere e devi ricominciare a farti i cazzi tuoi, come hai fatto finora. Mi pare che le cose siano andate bene fin qui, no?». L’uomo che ormai aspettava di arrivare a questo nodo, istintivamente sollevo le mani all’altezza del petto, come a volersi giustificare, e con una voce di cui faticava a controllare tono e regolarità per via dell’adrenalina che aveva notevolmente aumentato le sue pulsazioni obiettò «Io non ho idea di cosa stiate parlando, non ho fatto nessuna domanda». Il tizio tarchiato lanciò una occhiata veloce al compagno che rispose con un impercettibile cenno della testa, per poi sferrare un pugno deciso all’altezza della bocca dello stomaco. Il colpo fu incredibilmente forte e l’uomo si piegò in due, improvvisamente senza fiato e nell’impossibilità di respirare. Per qualche istante pensò di non essere nemmeno in grado di reggersi in piedi e mantenne l’equilibrio appoggiandosi con una mano al muro li accanto. Non appena riprese sufficientemente il controllo di sé, si voltò verso l’auto, sperando che la figlia non stesse guardando. Almeno per quello si sentì subito rincuorato: la testolina non si vedeva, segno che lei doveva essere tranquillamente affondata nel sedile posteriore con l’orologio in mano. Si sollevò e provò a dire qualcosa, ma venne immediatamente interrotto: «Forse non sono stato chiaro: la mia non era una domanda, non sei qui per dire ciò che hai o non hai fatto, perché lo sappiamo già. Sei qui per ascoltare e, se ti è rimasta un po’ di voglia di vivere in pace, fare ciò che ti si dice».

In quel momento la porta metallica si aprì. L’uomo sperò che qualche condomino fosse sceso nei garage e che la cosa gli avrebbe dato un po’ di tempo per riflettere su come uscire da quella situazione.

Quando però riconobbe la persona che si manifestò attraverso le scale vicino a loro, quella flebile speranza fu soppiantata da un senso di angoscia profonda. L’ultimo arrivato lo salutò «Ciao»

«Tu. Lo immaginavo, ma ho sperato fino all’ultimo che non fosse così. Credevo fossimo amici…»

«fai bene a crederlo, anzi, dovresti ringraziarmi: queste persone sono abituate a risolvere i loro problemi con soluzioni…definitive». La piccola pausa prima della parola “definitive” era stata estremamente efficace per far intuire l’importanza di quel termine e il significato concreto da attribuirgli. Questi fece cenno ai due “angeli custodi” di allontanarsi un po’, quindi si avvicinò all’uomo e gli si rivolse con voce bassa e calma «credimi, mi sono speso per te, altrimenti non saremmo qui a parlare e tu saresti già stato… vittima di qualche incidente». Gli posò una mano sulla spalla in un gesto che avrebbe voluto dimostrarsi amichevole, ma che in quella circostanza risultò invece ancora più intimidatorio «So cosa pensi e come ti senti: quello che è successo non lo volevo nemmeno io ma, credimi, non ho potuto far nulla. Tu però, ti sei messo a far domande, risollevando un problema che queste persone pensavano di aver risolto. Io li ho rassicurati che, invece, tu non saresti stato un problema: sei un marito e un padre premuroso e tieni troppo alla sicurezza dei tuoi cari per giocare a fare l’eroe, giusto?». Fissò l’altro, evidentemente in attesa di una risposta univoca a quella domanda. L’uomo abbassò lo sguardo in segno di resa e fece un cenno assertivo con la testa ma la cosa non era sufficiente: «Gradirei sentirtelo dire in maniera chiara: ho ragione?». L’altro in quel momento avrebbe detto qualsiasi cosa pur di uscire da quell’attimo di panico; lo guardò e questa volta rispose con voce tremolante ma chiara «Si, hai ragione, ti assicuro che non sono un problema per voi».

La mano, appoggiata sulla spalla, si spostò sull’altra in un movimento avvolgente che si tramutò in quello che, dall’esterno, si sarebbe scambiato per un abbraccio di un amico verso l’altro «Ne ero certo, sapevo di poter contare sul tuo buonsenso». L’uomo sentì che l’altro iniziava a camminare a passo lento in direzione della macchina e lo assecondò. Notò con la coda dell’occhio che gli altri due si erano posizionati dietro di loro e li seguivano «Se posso permettermi un consiglio, credo che tu e la tua famiglia dovreste cambiare aria. Se rimanete qua, non sono certo che, prima o poi, qualcuno ripensi a questa situazione e torni a ritenerti un problema»

«E dove dovrei andare?»

L’interlocutore si strinse le spalle mostrando non curanza in merito alla risposta e aggiunse «un’ultima cosa: ovviamente se mai tornassi ad essere un problema, fosse anche fra vent’anni, non troverai più in me un amico in grado di…proteggerti». L’uomo annuì facendo segno di aver perfettamente inteso il messaggio. Nel frattempo, i quattro erano arrivati all’auto «Bene, questi due signori ti riaccompagneranno alla tua auto e, dammi retta, se sei sveglio, farai in modo che non ci sia motivo di rivederli mai più».

Il tizio alto aprì lo sportello posteriore e fece cenno all’uomo di entrare, lui si sedette sforzandosi in ogni modo di apparire tranquillo agli occhi della figlia che lo guardò con evidente paura «Babbo andiamo via ora?». Lui la abbracciò «Si, Giulia, ora andiamo via»

Capitolo 1

2016

Era notte nella east coast americana; lo schermo dello smartphone nella stanza buia, rischiarata solo da due schermi collegati al computer acceso, si illuminò nell’appartamento lussuoso e arredato in stile moderno, al 56 di Church Street, nel quartiere Tribeca a Manhattan. Matteo Dei spostò lo sguardo assorto dal computer al telefono per vedere chi lo stesse cercando; in quei giorni aveva ricevuto tantissime telefonate e la maggior parte di queste le aveva semplicemente ignorate. Nello schermo lesse il nome “Sandra”: a questa telefonata doveva assolutamente rispondere: definire Sandra come la sua assistente sarebbe stato limitativo. L’aveva conosciuta anni prima, quando ancora era un Ufficiale della Marina Militare, dove Sandra stava trascorrendo il periodo di ferma volontaria. All’epoca lei svolgeva compiti veramente poco edificanti, cosa di cui non perdeva occasione di lamentarsi, evidenziando un certo lato polemico che di certo non le mancava e che in qualche modo gli ricordava lui stesso. Nel complesso invece a Matteo era sembrata immediatamente una ragazza dotata di personalità e, soprattutto, con una ottima propensione ad inquadrare persone e situazioni, oltre che a risolvere problemi. Era rimasto incuriosito e in qualche modo affascinato da quella ragazza minuta ma dai tratti decisi, con occhi scuri color nocciola, particolarmente pungenti quando volevano essere accusatori, e lunghi capelli ricci, incredibilmente difficili da raccogliere secondo le prescrizioni previste per le occasioni in cui vestiva in uniforme, tanto da renderla quasi irriconoscibile quando, pronta per uscire dalla nave vestita con i propri abiti normali, erano sciolti e ricordavano molto una criniera.

Una volta che il lavoro li aveva separati, i due si erano tenuti in contatto: dopo due anni di servizio, lei aveva lasciato la Marina e completato gli studi universitari in Scienze delle comunicazioni con una tesi sulla “comunicazione strategica nelle crisi”; contestualmente Matteo aveva fondato negli Stati Uniti, assieme a Maurizio Randa, la Main Capital, società di gestione di fondi speculativi che in breve si era conquistata una certa fama a Wall Street. Quando aveva intrapreso quella avventura, aveva voluto con sé proprio Sandra e, da quel momento, lei era diventata in tutto e per tutto il suo braccio destro e, probabilmente, l’unica persona di cui si fidasse veramente.

Prese il telefono in mano: «Pronto?» 

«pronto boss, come va?». Il modo in cui lei usava il termine “boss” quando si rivolgeva a Matteo evidenziava un certo grado di confidenza, cosa che lui raramente concedeva alle persone che lavoravano con lui, lasciando tuttavia percepire il rispetto di fondo che legava quei due.  

«ho chiamato anche per farti le condoglianze, mi dispiace molto per tua madre e scusa, immagino che adesso il resto diventi secondario ma…», fece una breve pausa «…se vuoi andare avanti col progetto, il momento è arrivato. Devi rientrare».

Matteo rimase in silenzio per qualche secondo «…grazie Sandra. Certo, non ho cambiato idea, anzi, il progetto lo voglio portare a termine adesso più che mai»;

«lo immaginavo, ti ho preso un biglietto per domani. Parti dal JFK, ti ho appena girato i dettagli via mail»

«Ok, grazie, sempre efficientissima»;

«ancora ti sorprendi? Forse dovrei offendermi» il tono era quello divertito che caratterizzava la recita che spesso i due portavano avanti nelle loro conversazioni, quindi lei aggiunse «Sei sicuro?». Questa volta Matteo rispose di getto per fugare ogni dubbio interpretativo «Sandra sì, sono sicuro. Sto bene, tranquilla»; lei non insistette oltre «ti faccio venire a prendere a Fiumicino»;

«Grazie Sandra, a domani»;

«a domani Matteo, cerca di riposarti».

Matteo premette il tasto per staccare la conversazione, poi diede uno sguardo rapido allo schermo del cellulare: sui loghi di tutte le applicazioni di messaggistica apparivano le notifiche dei molti messaggi non letti. Appoggiò il cellulare accanto alla tastiera e, con la stessa mano prese un bicchiere a base quadrata con dentro due dita di Scotch Whisky invecchiato 25 anni. Di fronte a lui, nello schermo sinistro del computer, una pagina bianca di una mail da scrivere, in quello destro, grafici a candela di titoli azionari; Matteo si appoggiò allo schienale della poltrona. Si ritrovò a pensare che adesso era veramente solo: dopo la morte dei nonni avvenuta anni prima, poco dopo l’ingresso in accademia, ora anche la madre se n’era andata. Era stato da sempre estremamente legato a lei che lo aveva cresciuto da sola. Ciò nonostante, Matteo non le aveva mai raccontato di quel progetto, conscio che lei probabilmente avrebbe fatto di tutto per dissuaderlo. Fino a quando era in vita, la sola idea che prima o poi avrebbe dovuto condividere con lei qualcosa di quelle idee lo preoccupava non poco: aveva lavorato troppo, investito troppo, fatto troppi sacrifici per orientare la propria esistenza su quella cosa e poi correre il rischio di farsi dissuadere dalle capacità di persuasione che lei aveva sempre dimostrato nei suoi confronti.

Pensò che il destino, adesso che tutte le fasi preparatorie erano finite e poteva iniziare veramente a dedicarsi alle questioni operative, gli aveva tolto quest’ultimo ostacolo in maniera davvero amara. Rimaneva poi un sotteso rimorso per essere stato lontano così frequentemente e non aver condiviso con lei molti dei momenti più importanti. 

Matteo prese il bicchiere che aveva di fronte sul tavolo e sorseggiò il proprio Whisky. Ripensò a quella notte di tanti anni prima, quando aveva fatto la scoperta che aveva dato una nuova svolta alla sua vita, portandolo pian piano a quel momento.

Ripensò a quegli anni vissuti attraverso due distinte vite parallele: una, quella pubblica e conosciuta da tutti, l’altra, quella segreta, in cui – mossa dopo mossa – si stava creando le condizioni necessarie per portare avanti quello che inizialmente era stato solo un piano vago e che solo col trascorrere del tempo si era man mano affinato di particolari, come un puzzle il cui disegno si manifesta progressivamente anche all’autore, un pezzo dopo l’altro.

Dall’impianto audio arrivava quella canzone che conosceva da sempre, in cui la voce, calda e graffiante, si prolungava in un urlo implorante che risuonava «Relise me».

Diventato un tutt’uno con la musica, in un rito di catarsi che lo stava lacerando, Matteo sentì gli occhi bagnarsi e, per quanto volesse impedirlo, le lacrime scesero piano sul volto; bevve quello che rimaneva d’un fiato e riempì nuovamente il bicchiere, mentre le parole uscivano da sole «ora si comincia».

****

L’aereo, un Airbus 380 decollato dal JFK di New York, stava sorvolando l’oceano Atlantico in direzione di Roma. Matteo sedeva nel salottino privato di business class, intento a leggere alcune mail, quando fu avvicinato da una hostess che, sfoggiando un enorme sorriso d’ordinanza, gli chiese se gradisse qualcosa da bere. Lei lo stava osservando con aria lievemente interrogativa: pareva fuori contesto rispetto alla maggior parte degli altri passeggeri di Business, spesso chiaramente riconoscibili come manager in viaggio di lavoro,  mentre quell’uomo, jeans, t-shirt con su scritto “Tool”, residuo di qualche concerto rock, certamente non doveva appartenere a quel mondo; più probabilmente poteva trattarsi di qualcuno che aveva a che fare con lo show business, almeno così pensava.

Matteo sollevò lo sguardo dal tablet con fare distratto fino a incrociare lo sguardo di quella donna. «Si, grazie qualcosa di alcolico, leggero» e, mentre lo diceva osservò il cartellino rettangolare, di colore dorato, che conteneva il nome “Filomena”; la hostess, certamente accortasi di essere sotto osservazione, rispose senza dar minimamente a vedere la cosa, abituata alle frequenti attenzioni dei passeggeri «un bicchiere di champagne può andare?» Matteo sorrise «direi perfetto» quindi, proprio mentre lei si stava voltando per andare a prendere l’ordine, proseguì «sei italiana, giusto? Compagnia emiratina, hostess italiana, fa piacere vedere connazionali in giro per il mondo», lei si limitò ad ampliare lievemente il sorriso e rispondere con un «grazie» per poi allontanarsi.

Matteo si guardò intorno: un’area rifinita in maniera lussuosa, con un posto comodo, separato e isolato dagli altri con divisori che, volendo, potevano essere completamente chiusi a formare una sorta di mini-cabina in grado di garantire una completa privacy, ideale per lavorare o riposare. Il tutto completo di un piccolo minibar a scomparsa sul bracciolo sinistro, un televisore in cui vedere programmi o film da scegliere fra una lunga lista a disposizione; connessione internet, oltre all’open bar e ristorante posizionati più avanti in direzione della gabina di pilotaggio.

Gli tornò alla mente il primo volo intercontinentale che aveva effettuato, esattamente nella rotta opposta: erano trascorsi ormai molti anni dai tempi in cui frequentava l’accademia navale e tutti gli allievi del suo anno furono imbarcati per andare negli Stati Uniti e imbarcare sulla Amerigo Vespucci per la campagna addestrativa estiva, quella che comunemente veniva chiamata “la crociera estiva” e che gli allievi avevano invece affettuosamente ribattezzato “la crociata”. In quella occasione, la seconda classe del 747 era in gran parte invasa da una mandria di allievi ufficiali in uniforme che impiegavano le lunghe e noiose ore di volo tentando improbabili interazioni con le hostess. Sorrise al pensiero che almeno quell’aspetto pareva non essere poi molto cambiato.

Guardò attraverso il finestrino alla sua sinistra; sotto l’aereo si vedeva solo una distesa sconfinata di blu, intervallata di tanto in tanto da qualche nuvola che scorreva velocemente. Gli capitava spesso di ripensare agli anni trascorsi in marina. Talvolta si trattava di ricordi piacevoli, goliardici e legati alle molte amicizie che ancora aveva mantenuto con i colleghi dell’epoca, in altre occasioni invece si trattava di ricordi più complessi che in alcuni casi lo avevano segnato profondamente. Alzò il volume della musica che stava ascoltando attraverso gli auricolari fino a non sentire null’altro, isolandolo dall’ambiente circostante: i Nirvana con “Lounge Act” coprirono ogni rumore di sottofondo: i motori dell’enorme aereo, il brusio degli altri passeggeri della business, tutto scomparve; al loro posto, inaspettato, trovò spazio il mare mediterraneo, in quel giorno di alcuni anni prima, in cui aveva avuto luogo una delle esperienze che maggiormente lo avevano toccato in quel periodo. E lui ricordava tutto molto bene.

La giornata è iniziata come molte altre durante questo periodo. Essere impegnati nell’ennesima operazione di controllo dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, non è questione da poco: c’è di mezzo la politica e una forte attenzione mediatica, anche se per tutti noi qui in mare non fa molta differenza.

Ieri abbiamo osservato numerose partenze di imbarcazioni cariche di profughi dalla Libia, senza che però fossimo chiamati in causa direttamente per intervenire: ci hanno pensato altre unità presenti in zona. Anche per oggi ci aspettiamo tutti di fare il bis, con la sostanziale differenza che ora la nostra è l’unica unità disponibile. Del resto, siamo di fronte a una delle ultime finestre di bel tempo prevista per questi giorni, è quindi probabile che i trafficanti vogliano approfittare di questa possibilità per organizzare le partenze, fino alla prossima occasione favorevole che chissà quando capiterà. Oggi quindi è probabile che toccherà a noi intervenire.

Le sensazioni che si vivono a bordo sono contrastanti: a nessuno piace l’idea di trovarsi qui, a fare un lavoro spesso ingrato che, peraltro, a casa per lo più viene visto male, come se la nostra presenza in quest’area non stia risolvendo un problema, ma lo stia invece generando.

Ad ogni modo, l’attesa dura poco: viene individuato un gommone con circa 150 persone a bordo a 35 miglia di distanza dalla nave e il centro di coordinamento dei soccorsi ci richiede di intervenire.

Iniziano le operazioni preparatorie: tute, guanti, mascherine, squadre di soccorso pronte, insomma tutto quanto ci servirà di qui a poche ore per prendere a bordo queste persone; l’aria è calma e il tutto si svolge come in una routine tranquillizzante. In fondo, fino ad ora è andata bene. Il mare è calmo e la giornata e il tempo sereno, motivo per cui si può ben sperare che le cose continuino così.

Arrivati sul luogo dell’intervento, però, la prima brutta notizia: riusciamo a prendere a bordo 146 persone, uomini, donne e bambini. Quattro mancano all’appello: una delle donne tratte in salvo, in lacrime e sotto shock, mentre viene aiutata a salire a bordo comunica che quattro persone, fra cui suo figlio, erano cadute in mare diversi minuti prima. Poche parole, giusto quelle che servono per trasformare una situazione di routine in emergenza.

Il comandante decide di far alzare in volo l’elicottero per tentare di individuare i dispersi, pur sapendo che le probabilità di ritrovarli sono purtroppo minime, e di ritrovarli vivi praticamente nulle.

L’SH90, l’elicottero presente a bordo della nave, già in stand by sul ponte di volo, decolla in pochi minuti, dirigendosi dove si spera potrà individuare i naufraghi. Il resto dell’equipaggio presta i primi soccorsi alle persone appena recuperate mentre aspetta notizie. L’attesa si mischia alla brutta sensazione di fondo che sempre da a chiunque l’idea di perdere persone in mare.

In quel frangente mi trovo nella centrale di informazioni di combattimento, ossia il luogo in cui lavorano gli operatori ai radar della nave e il controllore aereo che tiene i contatti diretti con l’elicottero in volo. La stanza è completamente buia, rischiarata esclusivamente dal chiarore degli schermi radar tenuti d’occhio dagli operatori di guardia. È da lì che capisco immediatamente che questa giornata non finirà bene. Le comunicazioni fra elicottero e nave d’improvviso si fanno più concitate e la voce del pilota, gracchiante attraverso il microfono, descrive ciò che sta accadendo: nel tentativo di individuare i quattro dispersi, l’elicottero individua invece un relitto di gommone, praticamente semi sgonfio e in parte sotto il pelo dell’acqua, che si trova a circa 10 miglia dalla nave. Aggrappate alle parti dei tubolari ancora parzialmente galleggianti, diverse persone, molte altre in acqua, tutte senza giubbotto di salvataggio.

Lo scenario diventa immediatamente chiaro per tutti: questa sera avremo morti da contare, nessuno si fa più illusioni su questo aspetto. Il mare è così: a volte i numeri non tornano; quelli delle persone che per una questione di tempo, di circostanze, cambiano nome e diventano cadaveri e quelli con le proprie coscienze che sempre fai quando qualcuno muore in mare vicino a te.

Considerata la distanza dall’avvistamento, la nave non può essere sul posto prima di mezz’ora. Per il momento è l’elicottero che si trova già sul posto l’unico a poter fare qualcosa: inizia a effettuare come può i primi soccorsi, lanciando alcuni salvagenti che ha a bordo verso le persone in acqua e segnalandone la posizione con un fumogeno, in modo da renderli maggiormente visibili al nostro arrivo. Il tutto prima di fare rientro a bordo, fare un appontaggio rapido per caricare un battello di salvataggio gonfiabile e tornare sopra i naufraghi per lanciare loro anche quello.

Si tratta di un conto alla rovescia che, invece di essere fatto sul trascorrere dei secondi o della sabbia che cade in una clessidra, si concretizza più pragmaticamente e spietatamente sulla sorte degli esseri umani.

Decido di rimanere in COC ancora un po’, fino a quando la nave si trova ormai in prossimità del punto del naufragio e, attraverso l’ingrandimento fatto grazie alle telecamere di bordo, si inizia a vedere in lontananza il fumogeno e a distinguere il caratteristico colore arancione dei salvagenti e del battello gonfiabile che l’elicottero ha lanciato in acqua.

Il locale è  pieno di gente che sta comunicando con qualcuno o guardando gli schermi; dalla consolle del controllore aereo si sente la voce del Tenente di Vascello Luigi Penna, il pilota dell’elicottero, dire che non ha mai visto una cosa del genere in vita sua, che li hanno visti per caso perché l’operatore addetto alla telecamera flir ha notato per caso qualcosa a miglia di distanza dal punto dove erano diretti, qualcosa di dimensioni sufficienti da essere individuato, ma che a causa della forma irregolare non pareva certo essere un gommone. Ecco perché avevano deciso di virare e puntare su quell’oggetto per investigare meglio il “contatto”.

La nave arriva sul punto e decido di uscire e salire in aletta di plancia da dove posso vedere bene ciò che sta accadendo; del resto, il ruolo di consulente legale che rivesto mi permette una certa libertà di movimento per la nave.

La scena che mi si presenta davanti è veramente terribile: verso prua, sopravvento alla nave, giubbotti salvagenti arancioni e persone sparse in mare un po’ ovunque. Il colpo d’occhio risulta di per sé spiazzante, come un momento di vertigine in cui fatichi a orientarti. Una cosa però mi dà un immediato colpo di adrenalina, facendomi scattare all’istante: un uomo in acqua a poche decine di metri, dritto di fronte alla prua della nave che, con un lento abbrivio, gli sta scarrocciando pericolosamente vicino. Posso vederne chiaramente lo sguardo, fra l’incredulo e il terrorizzato, nel trovarsi una massa di quasi 7000 tonnellate che si muove tanto vicina a lui sovrastandolo. Inizia a fare cenno con la mano tentando di attirare la nostra attenzione, così mi affaccio dall’aletta verso la plancia, attraverso il portellone di collegamento che, durante quelle operazioni, rimane sempre aperto. Li, vedo il timoniere e l’Ufficiale di Guardia in plancia intenti a governare la nave. Accanto a loro c’è anche Vincenzo, comandante in seconda e mio vecchio compagno di corso ai tempi dell’Accademia Navale. È a lui che mi rivolgo «man, ne abbiamo uno dritto a prua!»; la sua risposta è decisa ma calma: «sì, lo abbiamo visto». Contemporaneamente alle sue parole, vedo che il timoniere ha già iniziato ad accostare per evitare l’uomo in mare; mi riaffaccio verso l’esterno, seguendo con lo sguardo il naufrago defilare a pochi metri sul lato sinistro della nave.

La fregata, già a moto molto lento, si ferma completamente giusto a margine dell’area in cui le decine di persone da soccorrere annaspano in acqua. Adesso occorre individuarne il numero maggiore possibile nel più breve lasso di tempo ma, nonostante il mare abbastanza calmo, la cosa si rivela fin da subito un’impresa ardua, soprattutto a causa della vastità dell’area in cui sono stati sparpagliati da vento e corrente durante i lunghissimi minuti trascorsi dal naufragio del gommone stracarico che li stava trasportando.

Nel frattempo, il Comandante, appena sopraggiunto in plancia, da ordine di mettere a mare i gommoni dell’unità, con a bordo il personale di salvataggio. Il tutto, grazie alle numerose prove fatte nei giorni scorsi, richiede pochi minuti che a causa dell’emergenza e nonostante la serafica calma del nostromo e del personale impegnato nell’operazione, paiono interminabili.

Lo scopo è ovviamente quello di tentare di prendere più persone possibile a bordo, cercando però di farlo con un criterio razionale, senza lasciarsi andare all’improvvisazione, e assegnando le giuste priorità. Sollevo lo sguardo e vedo l’SH90 impegnato in un lavoro fondamentale: sorvolando la zona, individua dall’alto i gruppi di persone che il vento e il mare hanno allontanato maggiormente e che sarebbe impossibile vedere dal livello del mare, quindi ci si piazza sopra overing, abbassandosi di quota in verticale, come in una sorta di yoyo, per indicarne la posizione alle motobarche che, un po’ con le indicazioni ricevute dagli uomini presenti in plancia, un po’ grazie a queste manovre effettuate dall’elicottero, si muovono freneticamente facendo la spola da un punto di mare all’altro, tirando su quante più persone possibile.

Il lavoro si sta dimostrando tutt’altro che facile, soprattutto perché le persone, in acqua ormai da molto tempo, sono sfinite e completamente nel panico; bisogna dimostrare una notevole prontezza per capire velocemente chi deve essere salvato per primo e chi si spera possa resistere ancora un po’, il tutto d’istinto, senza la possibilità di ragionamenti o di valutare la situazione con calma.

Mentre assisto alla scena dall’aletta, Vincenzo mi si avvicina: «Matteo senti, è in arrivo una nave spagnola per aiutarci nei soccorsi. A breve vedrai i loro gommoni. Tu che parli spagnolo, tieni i contatti con i loro mezzi e coordinali con i nostri». Senza aspettare la risposta, mi passa il VHF che ha in mano. «ok Vincè, tranquillo, ci penso io»; lui mi fa un accenno di sorriso, come a sdrammatizzare una situazione che manifesta la propria criticità minuto dopo minuto «no dai, tranquillo non lo dire, tranquillo ha fatto una brutta fine, lo sai».

Trascorsi pochi istanti dalla conversazione, dal VHF si sente una voce che, in un inglese dal forte accento spagnolo, si qualifica come “i mezzi organici di nave Almirante Juan de Borbón, dell’Armada spagnola. «hola, aquí barco Bergamini seré tu canal de coordinación en el rescate. gracias por la ayuda». Ok, la grammatica forse non è perfetta ma il mio spagnolo, arrugginito dai tanti anni di inutilizzo, ancora si lascia capire. Del resto, sempre meglio poter essere utile qui in queste prime fasi, almeno finché non arriva l’ora di mettersi al PC per scrivere quegli inutili e interminabili report per Roma su quello che sta accadendo.

Guardandomi attorno mi rendo conto che, in questo momento, tutta la nave è impegnata a fare qualcosa: chi in plancia, chi in acqua sui mezzi a recuperare i naufraghi per portarli a bordo della nave; molti sono anche impiegati a prestare i primi soccorsi alle persone che man mano vengono fatte salire a bordo: tutti sfiniti, disidratati e al limite dell’ipotermia. C’è anche Francesca che, essendo l’unica dottoressa presente a bordo, ha l’onere di attribuire le priorità degli interventi in fase di triage. Osservandola adesso, intenta a fare il proprio lavoro, pare incredibile quanto sia cambiata in questi sei mesi trascorsi insieme e quanto si sia intensificata anche la nostra amicizia: quando è arrivata a bordo era timida e di poche parole; osservandola adesso, però, vedendo l’autorevolezza con cui sta dando disposizioni al personale assegnato ai primi soccorsi, sembra proprio che la timidezza iniziale sia totalmente scomparsa. Forse perché entrambi estranei all’equipaggio della nave e assegnati li temporaneamente per il solo periodo di questa missione, abbiamo fin da subito stretto amicizia, ritrovandoci spesso a trascorrere il tempo in infinite chiacchierate su ogni argomento possibile e immaginabile. So bene che a sentire i pettegolezzi che in molti fanno girare a bordo, fra noi c’è un rapporto che va ben oltre la mera amicizia, fa parte del gioco quando si trascorrono sei mesi assieme a una piccola comunità autonoma in tutto, composta da quasi duecento persone: l’effetto “grande fratello” è sempre in agguato, anche se, francamente, non me ne frega nulla. Francesca è una compagnia piacevole e non dobbiamo rendere conto a nessuno.

Mentre mi perdo in questi pensieri sulla “Doc”, viene issato a bordo con una barella un uomo incosciente, probabilmente in arresto cardiaco; chissà da quanto quei parametri vitali sono fermi, probabilmente c’è ben poco da fare per lui. Ciò nonostante, Francesca e Giulio, l’infermiere, iniziano immediatamente a rianimarlo: massaggio cardiaco fatto a turno per supplire alla stanchezza inevitabile che quel gesto ripetitivo comporta, adrenalina, il tutto per minuti interminabili. Continuo a osservare la scena dall’alto senza riuscire a staccare gli occhi da quello che sta accadendo. È impressionante l’ostinazione con cui Francesca e gli altri del team sanitario non intendono rinunciare a quella vita, nonostante, col protrarsi del tempo, le possibilità di un esito favorevole stiano diminuendo drasticamente.

Avverto una presenza vicina e istintivamente mi volto; accanto a me anche Vincenzo osserva la stessa scena con aria chiaramente scettica. Evidentemente ha gli stessi timori che ho io sull’efficacia di quella rianimazione; si rivolge a me «è trascorso troppo tempo, sarebbe il caso di lasciarlo crepare in pace quel disgraziato».

Nonostante le nostre perplessità, la rianimazione prosegue senza sosta, mentre Francesca, in un momento in cui si è alternata con un Giulio al massaggio cardiaco, è andata in infermeria a prendere un defibrillatore. Nessuno ha minimamente voglia di arrendersi e, mentre altri naufraghi vengono man mano fatti salire a bordo e rifocillati con un po’ di acqua, del tè caldo e qualcosa da mangiare, il gruppetto di personale sanitario con a capo Francesca continua ormai da quasi 50 minuti nel tentativo di riportare letteralmente in vita quell’uomo, mentre tutto suggerirebbe invece di lasciarlo andare. Trascorsa quasi un’ora, quando ormai le speranze sembrano completamente sfumate e si inizia realmente a pensare di desistere, improvvisamente il polso, e con esso la vita, torna.

Mi giro verso la plancia «Ehi Vincè, sembra che ce l’abbiano fatta, Cristo santo, un miracolo!»;

«Si, ok, ma dopo 50 minuti di rianimazione le probabilità che torni cosciente, cerebralmente vivo intendo, sono veramente poche: temo che ad andar bene rimarrà un vegetale». Quel realismo inappuntabile mi riporta al clima di tragedia della giornata, tanto da farmi quasi incazzare «Oh, sempre ottimista te, mi raccomando!», Vincenzo alza le spalle in un gesto che inequivocabilmente significava “da me che vuoi” per poi tornare con lo sguardo sullo schermo del radar della plancia.

Nonostante tutto, voglio considerare quell’uomo come una piccola, grande vittoria della giornata. Intanto, il conto delle persone a bordo non sale abbastanza: alla fine sono 64 i naufraghi tratti in salvo, compreso l’uomo a cui l’ostinazione di Francesca ha regalato nuovamente la vita. Quel gommone probabilmente trasportava almeno 140 migranti così, la matematica, fredda rivelatrice di verità, ci suggerisce che almeno una ottantina di persone mancano all’appello.

Dopo i vivi, seppur stremati da un soccorso protrattosi per ore, gli uomini dell’equipaggio iniziano a recuperare i corpi che, col passare del tempo, riaffiorano sul pelo dell’acqua.

Mi sposto verso la zona centrale dell’unità, da dove i naufraghi vengono fatti salire a bordo se sono in grado di farlo autonomamente, o issati per mezzo di una barella se troppo stanchi o feriti e non in grado di camminare con le loro gambe. Da lì inizio a scrutare l’acqua, ancora calma ma che, man mano che ci si avvicinava al tramonto, diventa sempre più scura. A pochi metri dalla fiancata della nave lo vedo: il dorso della schiena leggermente affiorante sulla superfice, le braccia rivolte verso l’alto, le gambe semiaffondate, la faccia sott’acqua: è un corpo, un corpo di donna per la precisione.

Il gommone con a bordo due uomini del Reggimento san Marco e un nocchiere inizia la parte più dura del lavoro: si avvicinano a quel corpo e lo issarono pesantemente a bordo mentre, tutt’intorno altri corpi continuano ad affiorare sul pelo dell’acqua. Uno dopo l’altro recuperano e allineano sul ponte della fregata 23 cadaveri, tutti appartenenti a donne, anzi, perlopiù ragazzine che, a vederle adesso, avranno potuto avere dai 13 ai 25 anni.

Da qui inizia il mio lavoro: anche se la prospettiva è tutt’altro che allettante, comincio a fotografare quei corpi, uno per uno, la figura intera, poi i particolari: tatuaggi, cicatrici, il volto. Il mare, oltre che la vita, in molti casi gli ha strappato via anche i vestiti, lasciandole impietosamente seminude, la bocca aperta, come in un ultimo disperato tentativo di placare la fame d’aria, le labbra viola, gli occhi spalancati. Almeno tre sono visibilmente incinte, altre hanno sul corpo cicatrici che lasciano immaginare come siano trascorsi gli ultimi mesi prima della partenza dalle coste africane.

Le foto vanno fatte, sono necessarie per la preparazione dei rapporti da presentare al magistrato una volta arrivati a terra, ma ho voglia di finire il più velocemente possibile. Mi devo sforzare di estraniare la mente da ciò che sto fotografando: non sono corpi, non sono persone che fino a poco fa vivevano, respiravano, speravano. Sono solo forme. Mi sbrigo in pochi minuti e ordino che i corpi vengano coperti per poi essere messi nei sacchi neri già presenti qui accanto.

Catalogare le foto, scrivere il rapporto sulla giornata, aggiornare tutti sui numeri ufficiali, questo è il lavoro che mi spetta di qui in avanti per questa sera anche se, in realtà, vorrei veramente staccare la spina da tutto questo: la disperazione, la morte, sono qualcosa a cui difficilmente ci si abitua e, dopo i momenti di azione in cui non c’è modo o tempo di pensare troppo, col passare dei minuti e il calare della tensione, sento che sta arrivando un momento di down. Non c’è tempo per distrarsi troppo, le cose da fare sono ancora troppe: devo contattare le autorità nazionali per concordare in quale porto far sbarcare naufraghi e cadaveri oltre alle numerose scartoffie rituali da scrivere e inviare. Intanto le foto dei corpi scorrono sullo schermo del PC e mandano inevitabilmente la mente a quelle vite finite. Dovrei osservarle con distacco ma temo sia impossibile vedendole così a caldo, non immaginarle quelle giovani donne mentre partono, assiepate con altre 140 persone su quel gommone, la sensazione di speranza mista a preoccupazione che certamente hanno avuto lasciando la costa africana, nella speranza di vedere presto quella europea; la paura quando il gommone ha iniziato a sgonfiarsi e l’acqua si è fatta sempre più invadente, senza che nulla attorno facesse presagire un lieto fine; il terrore una volta in acqua, la disperazione mentre la vita sta finendo, il dolore per acqua che inizia a riempire i polmoni e null’altro, se non una foto su un rapporto; un numero in un comunicato stampa, “23 vittime raccolte in mare da nave della Marina Militare”, e la pace, spero.

I pensieri viaggiano ma, col trascorrere dei minuti, il lavoro prende il sopravvento, tanto da sentire a malapena la voce attraverso gli altoparlanti di bordo dare avviso dell’inizio dell’orario di mensa, prima quella riservata al personale che sta per iniziare il proprio turno di guardia, poi quella “generale” a cui anche dovrei partecipare anche io. Non ho molta fame e di certo voglio completare quello che sto facendo il prima possibile per poi mettermi alle spalle questa giornata, quindi, per questa sera, niente mensa.

Proseguo con il lavoro per un tempo indefinito, fino a quando la voglia di staccare prende fortemente il sopravvento: «Basta, meglio che esca un po’ da qui». Il lavoro non è ancora finito ma serve un momento di pausa, una doccia che lavi via il sudore della giornata assieme all’umore che ha generato. Vado nel mio camerino e mi infilo sotto all’acqua calda che, scorrendo sulla pelle, sembra poter portare via con sé anche la tensione nervosa di quelle ore tanto difficili. Mi rendo conto solo in questo momento che, dopo l’episodio dell’uomo rianimato, non ho più visto Francesca in giro; immagino che per lei la giornata non sia ancora finita e che sia in infermeria per seguire l’evoluzione della situazione del suo paziente.

“Ho bisogno di uscire un po’ da questo camerino e provare a vedere qualche faccia in giro per la nave, devo parlare con qualcuno”; giro per i corridoi, incontrando di tanto in tanto qualcuno: tutte persone stanche dopo ore rivelatasi molto più lunghe e stressanti di quanto avremmo immaginato e, soprattutto, senza troppa voglia di parlare. Comprensibile, 23 corpi, forse 70 morti, sono numeri difficili da digerire: serve urgentemente un modo per invertire la prospettiva e dare un senso positivo a questa giornata. Provo ad andare in quadrato ufficiali, convinto che li certamente troverò qualcuno per scambiare due parole. Apro la porta e vedo, come immaginavo, seduti sui divanetti posati sul pavimento rosso, i due piloti dell’SH90; «bene i piloti sono una certezza, non deludono mai, se non sono in volo o in hangar, li trovi in quadrato». Qui l’atmosfera è differente dallo stanco procedere che caratterizza il resto delle aree di vita comune a bordo; Luigi sembra ancora immerso nei fatti di oggi e continua a ripetere il proprio racconto dell’accaduto, usando le medesime parole che gli ho già sentito ripetere nel pomeriggio attraverso la radio, ovvero che non ha mai visto scene come quelle di oggi; Ascolto il suo resoconto mentre mi appoggio al bancone della zona bar; lì chiedo a una ragazza sui vent’anni, volontaria in ferma annuale, che sta lavando un po’ di tazzine se gentilmente mi dà una birra: si, decisamente ci vuole. Inizio a sorseggiarla dalla bottiglia mentre mi rivolgo ai due in tuta da volo verde «avete fatto veramente un gran lavoro oggi, senza di voi sarebbero tutti morti», loro sembrano scettici «dici? Grazie, ma guarda non so che pensare, è stato solo un caso, non so nemmeno io come abbiamo fatto a vederli»;

 «certo che lo dico! affacciatevi sul ponte: quelle persone sono lì grazie a voi, ciascuna di loro è il risultato del vostro lavoro di oggi. A proposito, avete visto la doc?»

L’altro pilota, un biondino alto e atletico, dall’inconfondibile cadenza triestina mi guarda con aria divertita mentre Luigi mi risponde «credo che sia ancora in infermeria». Il tono è malizioso e subito dopo aggiunge «del resto se non lo sai tu dov’è…». Non ho né tempo né voglia di controbattere alla insinuazione sottesa; meglio far finta di non cogliere l’allusione. Mi rivolgo a loro alzando la bottiglia in segno di brindisi, loro rispondono sorridenti e riprendiamo a bere. Li ascolto mentre continuano a parlare ma mi rendo conto di una cosa fondamentale: non voglio stare qui per parlare del più e del meno, voglio vedere Francesca. Subito. Finisco la birra rimasta nella bottiglia in un unico sorso e decido che è il momento di andare. «ok, vado. Buon proseguimento» quindi, rivolgo alla ragazza dietro al bancone: «la prossima birra che bevono questi due, segnala nel mio conto»;

loro sembrano soddisfatti della cosa: «grazie man, a buon rendere».

Appoggio la bottiglia vuota sul bancone e li saluto con un gesto con la mano sforzandomi di mascherare la fretta che mi è improvvisamente venuta di uscire da li. Cammino a passo più svelto di quel che vorrei far vedere in direzione della poppa, dirigendomi verso l’infermeria, mentre mi analizzo cercando di capire da cosa deriva l’impazienza che improvvisamente sento di andare da lei: forse è semplicemente un po’ di curiosità di vedere come Francesca ha metabolizzato questa giornata, in fondo per lei più che per me si è trattato di un susseguirsi di emozioni difficili da gestire. …