
Vorrei dirvi perché da cattolico non mi sento di dare giudizi sulle scelte Fabo (o di chiunque altro nelle stesse condizioni)
Ammetto che ho molte remore sullo scrivere su questo argomento: quando accadono vicende come quella di Fabiano, con il risalto mediatico che ha avuto, così come fu per Eluana Englaro, sembra che le persone smettano di ragionare e, armate di bandiere e sciarpe, prendano posto in curva per tifare in un derby.
Personalmente invece credo che, quando si decide di entrare nel merito di scelte individuali, scelte sofferte, se proprio si sente il bisogni di farlo, sia necessario, anzi doveroso, farlo in punta di piedi. Cogliere l’occasione per buttare nella mischia mediatica qualche frase ad effetto non è solo sbagliato, è anche dannoso per il modo in cui svilisce il livello dei pensieri su circostanze tanto delicate.
La premessa è che sono cattolico, o meglio credo (so benissimo che le due cose possono non coincidere). Ma il mio credere è qualcosa che riguarda me ed il rapporto fra la mia coscienza e ciò in cui credo. Nessun altro. Non coloro che fanno scelte differenti dalle mie, a cui non sento minimamente il desidero di far cambiare idea, tantomeno riguarda quelli che “credono più di me” e che vorrebbero indicarmi la retta via. Ho la pretesa di scegliere la mia via da solo e se quando sarà giunto il mio momento avrò sbagliato, chi di dovere me lo farà capire.
La premessa è doverosa, anche se riluttante, come lo è per me parlare di cose intime come la credenza religiosa, perché non sopporto che il pensiero cattolico “autentico” passi per essere quello di personaggi in cerca di autore come Adinolfi o Francesca Chaouqui.
Trovo ipocrita giudicare una scelta estrema, come quella di rinunciare a vivere, con la facilità di chi riversa in rete il primo pensiero che gli passa per la testa, magari subito prima o subito dopo aver fatto una partita a tennis, una passeggiata, una serata con amici. Magari dopo aver preso un moment per un po’ di mal di testa, lamentandosi di quanto sia fastidioso.
Non può essere tanto semplice. Le nostre convinzioni, anche quelle più radicate, derivano da ciò che siamo, quindi per la maggior parte dei casi, da ciò che possiamo manifestare di noi nel mondo. Per certe persone non esiste più nulla di tutto ciò. Non esiste più, di fatto, una loro manifestazione nel mondo. Se non il dolore fisico, perenne e mentale per non essere più ciò che si era, senza speranza di ritorno.
Se proprio ci si sente in dovere di giudicare, sarebbe prima giusto immedesimarsi. Quando ci lamentiamo per un piccolo acciacco, per qualche dolore muscolare, per uno stato di forma scarso a causa di una vita sedentaria e del troppo lavoro, dovremmo provare ad immaginare (ed è l’unica cosa a cui si può aspirare, perché è impossibile rendersene conto effettivamente) quegli acciacchi e quei dolori moltiplicati per 100, per 1000, sempre, ogni giorno, senza possibilità di avere sollievo.
E quando simo pronti ad esternare al mondo un nostro pensiero, come me in questo momento, o come i due soggetti nominati più in su, quando sentiamo il desiderio di vedere, di ascoltare, di interagire, immaginiamo che non sia possibile, che tutto ciò che ci è concesso sia stare sdraiati, immobili, sedati. Avere la convinzione che in qualsiasi circostanza che la vita può offrirci non muteremmo i nostri valori e le nostre convinzioni è utopico, o peggio è arrogante e stupido.
Fare un commento di qualsiasi genere senza prima aver quantomeno tentato di immaginare questa situazione, nella convinzione irrazionale ma rassicurante che, in fondo, non ci troveremo in quella condizione, è tanto, troppo facile e anche tanto, troppo sbagliato. Significa lottare per imporre ad altre persone una scelta che, in fondo, non sappiamo nemmeno noi se sia realmente corretta.
Decidere di morire è una scelta estrema, ma è una scelta individuale, che ciascuno di noi può un giorno trovarsi a prendere. Riguarda l’individuo e, in parte, le persone care che ha attorno e che l’ultima cosa che vorrebbero è dover rinunciare all’amato, ma che razionalmente accettando di perdere pur di non vederlo più soffrire tanto. Stop. Il discrimine non può essere solamente la capacità fisica di porre in essere questa scelta autonomamente.
Ecco perché non voglio che la mia religione diventi un alibi all’incapacità politica di prendere una decisione, una cosa a cui la politica effettivamente serve è infatti proprio fare scelte. Se questa capacità ci fosse stata probabilmente oggi non parleremmo tanto di antipolitica.
Non ci può essere una battaglia politica pre-schierata sul suicidio, in nessun modo e di nessun tipo. Non può il medesimo settore culturale, politico inneggiare agli imprenditori morti suicidi (anch’essi vittime disgraziate di fatti di vita), come eroi al fine di schierarne politicamente le morti e, con la stessa disinvoltura, additare come vigliacchi coloro che alla stessa scelta arrivano a causa di sofferenze indicibili.
Su questo terreno di scontro francamente non ci sto, e credo che non dovrebbe starci nessuno. Se credere serve a qualcosa, serve innanzitutto a saper amare e il primo passo per amare è rispettare senza giudicare, specialmente quando giudicare con cognizione è impossibile.
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